Parole chiave per una ripartenza solidale
Durante la pandemia hanno iniziato a farsi strada alcune nuove parole chiave nel settore culturale, molte delle quali non sono ancora del tutto sdoganate ma potranno certamente essere di aiuto in un momento di avvio di un programma di governo. Questo contributo non intende affatto quindi fornire raccomandazioni che, in altre sedi sono state congiuntamente formulate dalle principali associazioni del settore (manifesto Cultura è futuro, settembre 2022), ma solo condividere alcuni spunti di riflessione che partono proprio da queste nuove parole chiave importanti per le politiche culturali, i modelli economici, il ruolo degli operatori culturali e le loro competenze.
Una raccomandazione unica in realtà però è bene formularla: non si torni indietro e la risorsa culturale non sia più sacrificata perché trasversale rispetto anche alle missioni del Piano di Ripresa e Resilienza e ai pilastri della Nuova Programmazione delle Politiche di Coesione, in grado di connotare una via italiana alle grandi sfide green e digitale. La sfida green italiana, per esempio, non corrisponde anche alla proposta di valori culturali che devono rianimare le nostre aree rurali, filiere agricole, mestieri tradizionali e i nostri ambienti naturali? Alle infrastrutture digitali non deve anche corrispondere una diffusa infrastruttura culturale che possa colmare i gap di educazione e consapevolezza anche critica nei confronti delle tecnologie? L’equità di genere e l’inclusione sociale non derivano anche dal superamento di gap educativi e culturali? E così potremmo continuare perché le tematiche e le competenze culturali possano essere impiegate nella costruzione della spina dorsale delle economie e delle società europee di domani. Ed il fare cultura in forma cooperativa aggiunge a tutto questo la dimensione della solidarietà, indispensabile per un futuro più giusto. Una riflessione e un appello, quindi, a favore di più cultura e più cooperazione.
LE PAROLE CHIAVE PER LE POLITICHE CULTURALI: SUSSIDIARIETÀ E SOSTENIBILITÀ
Le politiche culturali e di valorizzazione del patrimonio, anche in molti casi nel PNRR, seppure in modo assolutamente ancora artigianale ed imperfetto, hanno avviato una sussidiarietà che non si era mai vista prima: basti pensare al Piano dei Borghi o al Piano Complementare Next Appennino, che hanno implicato un nuovo rapporto tra comuni, regioni, Mic ma anche tra le istituzioni pubbliche, i cittadini singoli e associati, e le imprese culturali.
Misure che hanno previsto un investimento pubblico sul patrimonio pubblico, non finalizzato esclusivamente al restauro e riqualificazione ma ad una più ampia e duratura rigenerazione territoriale con un coinvolgimento nelle diverse fasi (dalla progettazione, alla pianificazione, alla realizzazione e futura gestione, fino alla misurazione degli impatti) sia dei diversi livelli istituzionali sia degli attori del territorio, pubblici e privati, fino all’idea di una governance cooperativa sussidiaria, suggerita nel concetto di partenariato speciale pubblico privato. Una strada non semplice ma obbligata laddove l’investimento sia finalizzato al perseguimento di obiettivi comuni e di impatti su un contesto più ampio e di diversa natura: si pensi ad esempio alle attese del PNRR in termini di crescita di imprese, lavoro giovanile, sostenibilità ambientale, tutti risultati che non possono che ampliare la platea dei soggetti che partecipano alla definizione del progetto e alla valutazione finale.
Quindi sia la cura e messa a valore dei commons (beni comuni quali, in questo caso, le risorse culturali e naturali di una città o di un territorio) che la condivisione e misurazione di effetti migliorativi comuni, che la messa a valore dovrebbe produrre, presuppongono un patto “cooperativo” a monte e a valle, sia esso denominato co-progettazione, patto di comunità, o partenariato speciale pubblico privato, comunque condividendo responsabilità in ogni fase del processo e impegni per il futuro.
In particolare la modifica dell’art. 151 del Codice degli Appalti pubblici, intervenuta proprio durante la pandemia, ha aperto la strada a forme di partenariato pubblico-privato semplificato che servono da stimolo alla valorizzazione di lunga durata di un patrimonio poco conosciuto e non sempre accessibile per restituire ai territori e alle comunità beni inutilizzati che spesso si trovano nelle aree interne e marginali del paese. Una opportunità di sviluppo sostenibile e diffuso (di cui potrebbero beneficiare anche aree escluse da altre forme di sviluppo) che non può essere persa.
Ebbene l’iniziativa lanciata nel 2019 da Alleanza delle Cooperative Turismo, Cultura e Comunicazione “Viviamo Cultura” è stata una prima grande sfida in questa direzione ed il numero di cooperative partecipanti alla call da ogni parte d’Italia, in accordo con gli Enti titolari dei beni, è stata un segnale di grande resilienza, di una reazione attiva alla grave crisi che le aveva colpite. Da qui si potrebbe ripartire per nuovi modelli di governance partecipata sostenibile che mutua dalla pratica cooperativa (riconosciuta fin dal 2016 dall’Unesco nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale) non solo la capacità di una comunità di mettersi insieme per valorizzare i beni comuni ma anche la capacità di fare rete tra attori diversi, per creare partenariati.
Si supera così la contrapposizione tra pubblico e privato che per troppo tempo ha relegato il privato nel confine delle esternalizzazioni e considerato la redditività dalla cultura un problema, anche se questa veniva riutilizzata per creare lavoro, qualità e crescita.
LE PAROLE CHIAVE PER NUOVI MODELLI ECONOMICI: ACCESSIBILITÀ, INCLUSIONE E COOPERAZIONE
Se la cultura fosse finalmente sottratta al tema della competitività, della opposizione tra mercato e Stato, tra interesse privato e pubblico, ma anche tra grandi attrattori e luoghi minori, o tra nord e sud (essendo tra l’altro risorsa disponibile e diffusa in tutte le regioni del Paese) allora potrebbe diventare anche un settore dell’economia realmente trasformativo in direzione di coesione sociale, superamento dei divari territoriali e sviluppo sostenibile, fattore trainante di un nuovo modello di crescita orientato a politiche economiche e sociali sostenibili in quanto elemento identitario e di welfare, ma anche asset di risorse su cui innestare processi di messa a valore e sviluppo per superare i divari sociali, educativi, di genere e generazione, territoriali.
L’asset cultura è troppo poco presente nel Piano dell’Economia Sociale che l’Unione Europea ha varato nel Dicembre 2021, mentre potrebbe contribuire effettivamente ad una nuova economia circolare e collaborativa, apportando un approccio creativo, innovativo e coesivo: nuovi modi di fare impresa per la messa a valore dei commons, servizi e spazi di prossimità educativi e culturali accessibili, sistemi di fruizione ed edutainment innovativi e piattaforme digitali con al centro le persone e il loro empowerment, hub creativi per la valorizzazione dei giovani talenti e per ridisegnare città e territori.
Anche rispetto alle due maggiori sfide e ai relativi investimenti del PNRR , Transizione Green e Digitale, centrali anche nella prossima Programmazione 21-27, occorrerebbe una maggiore contaminazione culturale verso una visione “umanistica” e “solidale”, centrata sulle persone e sui valori, affinché gli investimenti materiali o tecnologici siano sempre accompagnati da azioni immateriali di re-design partecipato dagli attori del territorio, di educazione diffusa e di condivisione e co-creazione di nuove economie land-based, che solo il soft-power della cultura può produrre, con impatti sociali significativi per le comunità.
Anche in questo caso l’approccio cooperativo ai modelli economici è fondamentale. Se la cultura viene prodotta e gestita in forma cooperativa, con una organizzazione inclusiva e radicata nei territori, diventa più accessibile alle comunità e con effetti moltiplicatori più equamente distribuiti. Ne sono esempio i presidi culturali gestiti da cooperative disseminati anche laddove le grandi istituzioni statali non arrivano, che svolgono attività museali e performative per disabili, portano il teatro nelle periferie, promuovono la lettura, coinvolgono i pubblici più fragili. L’impresa cooperativa include e unisce competenze diverse e comunità, generando al contempo partecipazione e innovazione.
Un esempio ulteriore sono le cooperative di comunità, organizzazioni di cittadini ma anche animate da giovani professionisti, talvolta di ritorno nei loro luoghi d’origine, che hanno saputo mettere a valore e quindi trasformare in chiave innovativa e interdisciplinare i saperi, i beni culturali e naturali di un territorio. Ed altrettanto importante è l’approccio cooperativo di filiera che attraverso la creazione di reti territoriali o tematiche supporta e rafforza le organizzazioni più piccole (le micro-piccole imprese che caratterizzano la frammentarietà dei settori culturali e creativi) con la condivisione di competenze e servizi di rete, per una crescita comune: integrando e mettendo in circolo agricoltura innovativa, valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, percorsi di turismo rigenerativo, ridisegnando città e borghi con luoghi di un nuovo abitare e produrre, innestando competenze creative in tutta la catena del valore.
In una visione più strategica dell’economia sociale la cooperazione culturale si candida a fare da elemento “elettrificatore”, mettendo a disposizione esperienza intersettoriale nello sviluppo delle filiere territoriali, nello stimolo della cultural vibrancy e nella promozione di conoscenza e ricerca, nella prospettiva di un Rinascimento multidisciplinare dei territori e delle comunità.
LE PAROLE CHIAVE PER L’INNOVAZIONE: SOSTENIBILITÀ, MUTUALISMO DIGITALE, COMPETENZE IBRIDE
Nella invenzione di nuove economie della conoscenza, cultura e creatività collaborative e circolari, espressione identitaria dei territori e della loro contemporaneità, che uniscono memoria e immaginazione, le infrastrutture e le connessioni digitali rivestiranno una funzione essenziale, purché anch’esse riorientate in una direzione più sostenibile, proprio al fine di evitare quegli effetti degenerativi, ormai sempre più palesi, di un avanzamento tecnologico perseguito come fine in se e non come strumento di emancipazione umana.
Danni anche nel nostro settore non sono mancati, a partire dall’eccesso di spettacolarizzazione cui sono state destinate alcune installazioni tecnologiche o dagli invasivi allestimenti di macchinari vari negli spazi museali, rimasti inutilizzati subito dopo le inaugurazioni. Seppure durante la Pandemia sia emersa ancora più forte la necessità di aggiornare con strumenti e sistemi digitali l’intero ciclo di esperienza connesso al patrimonio culturale, dalla conoscenza alla accessibilità e fruizione, nonché la quota troppo alta di luoghi della cultura ancora privi anche di un sito web, tuttavia gli ingenti investimenti recentemente messi a disposizione per le dotazioni tecnologiche di musei e biblioteche dovranno essere accompagnati da altrettanti interventi di capacitazione e connessi ad obiettivi strategici che vadano oltre la mera innovazione tecnologica. Il rapporto con il digitale dovrebbe essere improntato fondamentalmente ad un approccio human-centered e alla sostenibilità futura, scegliendo tecnologie abilitanti che accrescano capacità di osservazione, conoscenza, consapevolezza critica sia nei fruitori che nei gestori, e che nel tempo possano essere gestite e mantenute per un numero ragionevole di anni.
Un altro elemento fondamentale di cui tener conto è che le infrastrutture digitali siano ideate in maniera connessa e rese accessibili a tutti, con dati aperti e messi a disposizione delle diverse tipologie di utenti. Anche in questo l’approccio cooperativo offre soluzioni: le piattaforme cooperative si basano su un utilizzo democratico del digitale e sulla condivisione di informazioni e dati, per integrare filiere e creare economie di scala. Sono alternativa sia ai giganti del web, che del patrimonio di dati e informazioni degli utenti hanno fatto strumento di esclusivo dominio sul mercato; sia alle faraoniche piattaforme tutte pubbliche, al cui fallimento si è assistito più volte.
Occorrerebbe immaginare una via italiana più partenariale e partecipata nella costruzione e gestione delle infrastrutture digitali applicate alla cultura e al turismo, e per questo occorrerà una diffusa formazione delle competenze necessarie che riguardi tanto il lavoro pubblico che privato e quindi tutti i livelli: scolastico, universitario, professionale e permanente. Per questo i rapporti con le eccellenze, tra cui le università e i centri di ricerca, sono di estrema importanza per costruire un’aggregazione e un’integrazione di competenze che siano in grado di favorire la qualificazione e la specializzazione del capitale umano al servizio tanto dell’amministrazione pubblica che del tessuto imprenditoriale.
Avremo tanto bisogno di competenze innovative quanto di competenze trasversali, in primis la capacità di lavorare in gruppo, facendo interagire comunicatori, tecnologi, storici dell’arte, archeologi, esperti di sviluppo urbano e territoriale, urbanisti e designer e, soprattutto, operatori pubblici e privati insieme. Le misure del PNRR “Dall’Università all’impresa”, ed in particolare i partenariati estesi per progetti di ricerca partecipati dalle imprese, rappresentano pertanto un’occasione importante per contaminarsi e ibridare cultura umanistica, innovazione tecnologica, sviluppo territoriale. Questo approccio permetterà anche di re-immaginare le politiche del lavoro come una formazione e scambio continuo con il mondo della formazione e della ricerca.
In queste soluzioni vedo l’opportunità di un grande cambiamento delle strategie formative del settore, per arrivare all’unione di sapere, saper fare, virtù civiche e utilità sociale e conseguentemente anche la possibilità di un diverso riconoscimento del ruolo del lavoro culturale.
LE PAROLE CHIAVE PER GLI OPERATORI DELLA CULTURA: TUTELA DEL LAVORO CULTURALE E CIVISMO CULTURALE
Durante la Pandemia sono emerse contemporaneamente da una parte la grave assenza di tutele nei confronti del lavoro artistico e culturale, dall’altra il contributo di queste professioni al benessere e alla socialità e quindi il loro ruolo sociale a cui dovrebbe corrispondere tanto un equo riconoscimento accompagnato dalle necessarie tutele quanto la consapevolezza di responsabilità e impegni.
Tutto il lavoro culturale dovrebbe essere prima equamente riconosciuto e tutelato, ma anche ripensato all’insegna del civismo culturale, cioè di una virtù civica laica che attribuisce all’arte e alla cultura nelle molteplici forme e attività la capacità di trasformare e migliorare il futuro attraverso pratiche di produzione e partecipazione per sviluppare il senso della comunità umana, la condivisione di valori universali e il dialogo (l’idea che l’esperienza e il giudizio del bello, in senso kantiano, possano predisporre tutti alla conoscenza, alla relazione, alla collaborazione, cioè al fare insieme). Con questa idea si sposa perfettamente il cooperare per la cultura perché si tratta di un’azione pratica, una poiesis (l’azione di chi crea qualcosa che non c’era) che si compie e si partecipa insieme, grazie proprio alla capacità di dialogo e scambio che la cultura innesca. È il compito che si attribuisce alla cultura nella diplomazia culturale: conoscenza dell’altro, valorizzazione delle differenze e delle stratificazioni, scambio di pratiche e lavoro per l’inclusività. La negazione della diversità e della pluralità purtroppo innesca invece conflitti talvolta anche drammatici, come quelli cui assistiamo con sempre maggiore frequenza.
Ciò implica che le iniziative culturali non possono svincolarsi dall’impegno di mettere a disposizione delle comunità occasioni di partecipazione e di crescita comune, ma anche spazi per le nuove generazioni e per la pluralità delle forme, contribuendo ad allargare gli orizzonti verso nuovi futuri. Chi ha il privilegio di essere organizzatore o autore delle iniziative culturali non può non assumersi dei rischi: aprire a inedite performance, far partecipare, contribuire a generare impatti sostenibili e a trasformare. Ancora di più se sostenuto con contributi pubblici.
La mia esperienza nella cooperativa per la quale lavoro da 30 anni è in tal senso paradigmatica: nata dall’incontro tra esperienze e talenti diversi, uniti da uno stesso ideale civico, quello della diffusione e condivisione della cultura attraverso la cooper-azione. Il nostro obiettivo è sempre stato rendere cultura e patrimonio culturale accessibili e accoglienti, per contribuire ad un ideale di giustizia sociale basata sulle uguali opportunità di accesso alla conoscenza. In questo senso possiamo dire davvero di aver creato qualcosa che prima non esisteva. Quando abbiamo cominciato il patrimonio culturale italiano era inaccessibile ai più e chi se ne occupava era concentrato su custodia e conservazione, talvolta percependo i visitatori come un disturbo. Abbiamo creato per primi un sistema integrato di informazione, accessibilità, accoglienza e didattica che rendesse possibile a pubblici diversi di avvicinarsi al patrimonio culturale. Lo abbiamo fatto moltiplicando i servizi al pubblico, dialogando con i territori, proponendo le aperture fuori orario, attività di comunicazione e programmi didattici differenziati, a cominciare dalle scuole. Abbiamo incontrato una duplice ostilità: da chi diceva che con la cultura non si mangia, e de-finanziava drasticamente il settore; dagli esperti e dagli accademici, che vedevano nella nostra attività il lavoro “sporco” di chi avvicinando la cultura al pubblico la svilisce.
Ai nuovi giovani imprenditori o cooperatori della cultura e dell’innovazione auguro invece che questa risorsa, inesauribile e diffusa in Italia ma anche in tutta Europa, possa essere pienamente disponibile sempre, e che diventi un grande spazio formativo e creativo, un’enorme aula e laboratorio all’aperto da mettere a disposizione della formazione dell’essere umano, della sua invenzione e accrescimento critico e di società più plurali, aperte, democratiche.
La riflessione pubblicata su Letture Lente AgCult